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Alain Rosa

datazione, come il famoso e sfortunato cacciatorpediniere della Regia Marina “Quintino
Sella”, affondato a poche miglia davanti a Venezia nel 1943, o come il sommergibile “Medusa”,
l’incrociatore “Amalfi”, il motoveliero “Antonio Checchi” e altri ancora di minore importanza.
Questi i relitti noti e segnalati. Molti altri, di non conosciamo il luogo del naufragio, giacciono
in fondo al mare in attesa di essere scoperti.
E’ possibile che il rinvenimento delle due ancore sia riconducibile, considerata la rotta che ha
seguito il motopeschereccio, ad un’area a sud di quella adibita a scarico di materiale di risulta
compresa fra il radiofaro Roger W. Mowel Campo Adda a sud e quella indicata con la sigla
Lamp. R 2 (6). Si collegherebbero, quindi, a due diverse navi che molto tempo prima hanno
percorso lo stesso tratto di mare facendo naufragio o, nella migliore delle ipotesi, avendo
perduto o abbandonato volutamente le ancore. Potenzialmente, le due ancore potrebbero
essere la testimonianza della presenza di due distinti relitti di cui non si conosceva la
presenza, che attende di essere verificata.
Quando si osserva casualmente un’ancora, subito la fantasia ci porta a cercare con
l’immaginazione quale fosse il tipo di nave a cui poteva appartenere, ai mari e ai porti in
cui è stata gettata, a quali tipi di fondali ha toccato fino all’esito più tragico per una nave,
quello del naufragio. Per i più esperti del settore l’aspetto immaginario lascia il posto ad una
lettura più concreta; subito si pensa in maniera più analitica, scientifica, che conduce dritti
a chiedersi quale sia stato il punto esatto del ritrovamento, la morfologia del fondale, il tipo
di nave su cui era imbarcata, le molte ipotesi sull’affondamento o le cause che hanno fatto
perdere o abbandonare l’ancora, per passare poi ai suoi dettagli costruttivi e per concludere
con una moltitudine di ipotesi al fine di ottenere una risposta, la più corretta possibile sulla
sua vicenda, perché ogni ancora trascina con sé una vicenda, diventando a volte l’unica
testimonianza di una storia sempre diversa.
La vicenda delle due ancore è uguale alla maggior parte di reperti di questo tipo recuperati dai
fondali marini, rientrando in quella casistica di ritrovamenti che si articolano nelle seguenti
fasi: dapprima, il loro recupero accompagnato inizialmente dalla curiosità; in secondo luogo,
come spesso accade essendo manufatti di notevole peso e quindi difficili da movimentare, il
loro abbandono in qualche area di deposito; in terzo luogo, trascorso un certo arco di tempo,
il rischio della loro vendita come ferro vecchio, come pezzi di antiquariato per particolari
collezionisti e, nella migliore delle ipotesi, l’impiego come semplici oggetti ornamentali in
qualche aiuola o come monumenti dedicati al mare.
Per queste due ancore la vicenda ha avuto fortunatamente un esito diverso, considerando
che stavano per essere destinate alla loro rottamazione. Tutto ebbe inizio quando mi giunse
una comunicazione da parte di un appassionato di mare, sensibile a tutto quello che riguarda
gli aspetti legati a questo ambiente, il quale mi informò che a Rimini giacevano già da tempo
due grosse ancore in ferro che stavano per essere smaltite, perché occupavano un giardino
che doveva essere liberato (figg. 2 e 3).
Raccolte le poche informazioni a disposizione, mi recai sul luogo per effettuare i necessari
rilievi e la documentazione fotografica dei reperti. Fu in quell’occasione che venni informato
dalla Capitaneria di Porto di come queste ancore furono recuperate e finirono a Rimini e del
fatto che la stessa Capitaneria era intenzionata a breve a disfarsene, mettendole all’asta al
migliore offerente.
Le ancore, secondo quanto dichiarato nel verbale di ritrovamento redatto dalla Capitaneria
di Porto su testimonianza del rinvenitore, vennero recuperate dal sig. Mauro Zaltron,
comandante del peschereccio “Joacchi” della flotta da pesca di Rimini, il quale dichiarò che

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